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mercoledì 27 novembre 2013

L'inganno

Animali da società in cima alla scala evolutiva: è così che ci riconosciamo? Un sottile eufemismo, forse? E poi, con quale unità di misura ci crediamo più evoluti? Forse di presunzione? Differenti dagli animali per intelligenza, ma viceversa menomati e differenti da loro per non meno legittime qualità, che siano uditive, olfattive, visive. Presuntuosi guerrafondai, pensiamo che la potenza di togliere la vita al mondo sia la miglioria della specie umana. Esseri da società, ma non da branco. Esseri da società, possediamo una non invidiabile memoria, memoria che è il fulcro del pensiero, il punto archimedeo dell’intelletto che ci permette di ricordare per apprendere, ricordare per costruire e poi migliorare in cerchio fino a rincorrere l’infinito per alimentarci. La ricerca dell’infinito deriva dalla conoscenza, che a sua volta è radicata nella memoria. Come possiamo sentirci pieni, appagati, ricchi emotivamente, istantaneamente felici, se la memoria ci ricorda che non c’è nulla di stravolgente, e che è già successo altre volte, centinaia di volte in milioni di modi diversi? Ecco, come possiamo? Lei ti sfianca, lacerandoti con la sua loquace ma laboriosa attitudine al divinizzare i ricordi passati, bramando dall’interno la biologica infelicità, e dice: <> e incalza dicendo: <>. È l’inganno, e noi ci caschiamo eternamente, riempiendoci di soldi, sognando di fare carriera, sfidando i limiti che ci accomunano, in risposta al serpente tentatore della memoria, e ai consigli su come diventare speciale. Per me, è la ricerca del delirio d’onnipotenza, della droga per eccellenza, poiché in essa risiedono le biologiche follie umane dall’effetto autodistruttivo. Insaziabili, incontentabili, è naturale, fa parte di noi e così, senza stupore o scrupoli, ci ammassiamo in società che abbiamo assemblato, costruito per prolungare la vita cercando di stupirci ancora, ancora e ancora, con un figlio, e ancora un’ultima volta quando ci stupiamo del precoce incombere della morte e ci irrigidiamo pensando la nostra esistenza come una canzone di cinque minuti di rincorsa fugace verso l’essere apolide. Non penso sia niente di più di una sinfonia composta da accordi di breve emozione, e suonata da mani sudate e logore: un lungo tempo per impararla e cinque minuti per godersela. Il tempo perde la sua importanza quando non porta allo scopo, al gaio scopo. Non ritengo ingiusto o mortificante ridurre la vita a una canzone di cinque fugaci ma turgidi minuti, perché la vita è fin troppo lunga, e se non la si cavalca, poderosa lei non corre.

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